Empyrium – “Über Den Sternen” (2021)

Artist: Empyrium
Title: Über Den Sternen
Label: Prophecy Productions
Year: 2021
Genre: Symphonic/Folk Doom Metal
Country: Germania

Tracklist:
1. “The Three Flames Sapphire”
2. “A Lucid Tower Beckons On The Hills Afar”
3. “The Oaken Throne”
4. “Moonrise”
5. “The Archer”
6. “The Wild Swans”
7. “In The Morning Mist”
8. “Über Den Sternen”

Secondo un controverso e spesso spietatamente contraddittorio August Strindberg alle prese con la fiaba, la fantasia che siamo soliti reputare forza creativa, ovvero che dal nulla per così dire operi, è in realtà piuttosto dotata della peculiarità dell’organizzazione. Quel che ad una prima lettura parrebbe forse uno svuotarsi del principio inventivo romantico solitamente associato alle arti viene però, sempre dal genio letterario dell’istrionico svedese, presto spiegato: è proprio questa sorta di organizzazione, sicuramente non di rado dalla scintilla iniziale invero inconscia, a dare un ordine necessario al veicolarsi delle ricchezze in origine “più o meno grandi” (chi scrive invita qui il lettore a volersi soffermare giusto qualche secondo sulla quantità enorme di significato di queste ultime quattro parole nel contesto, prima di proseguire nella lettura) di tutta quella serie d’impressioni, di tutte quelle esperienze e di quei ricordi sensibili che proprio nella memoria costantemente attive, più che oziose nell’etere in una vacua speranza di essere gettate giù da lampi di presunta ispirazione naturale, vengono invece correttamente selezionate e disposte affinché ognuna possa maturare nel più preciso e connaturato posto che meglio e più scrupolosamente le appartiene. Qui, queste, possono infine essere fruttuosamente impiegate e così facendo illuminare la strada all’esplorazione del pensiero quanto del passo del viaggiatore alla scoperta dei misteri del regno cosiddetto naturale, quali luce sulla punta di un ramo – di un bastone, di una verga appuntita che possa forare persino la volta celeste al crepuscolo e mostrare prima che sorga il sole, durante il morire della notte all’accorto, cosa vi si nasconde oltre, al di sopra del tetto stellato e del suo trucco allegoria dell’anelito cocente: da alcune selezionate angolazioni, ed in alcuni momenti, così apparentemente vicino, eppure sempre così insanabilmente lontano.

Il logo della band

Che si voglia considerare quindi questo un possibile punto di partenza per l’approfondimento dell’intera poetica Empyrium o piuttosto quelli pure limitrofi dei meno moderni, maggiormente ottocenteschi e romantici, tedeschi o in questo senso peggio ancora inglesi -senza timor di smentita i più artefatti, superati e se vogliamo fasulli nella loro retorica di attaccamento intellettuale al reame della natura, di laghi e fronde ammantate di sublime e di pericolo da razionalizzare al caldo ed al sicuro della propria abitazione di comodità cittadina- il risultato non cambia in verità di una virgola: nel loro sesto album in studio, i due satiri bavaresi danno fondo a tutte le loro fantasie pregresse, a tutte le loro esplorazioni personali -nessuna esclusa- come alle impressioni nitide ed esperienziali del passato per poter creare il miracolo della novità, per operare la meraviglia della creazione da zero; quel che si potrebbe anche definire altrove il reinventarsi, e che tuttavia in “Über Den Sternen” assume i connotati caldi, accoglienti, tranquillizzanti ma non domati di una prova omnicomprensiva a busta ricca d’ignoto e di sfida, concentrica ed uroborica di un linguaggio se non di un mondo.
Non si tratta tuttavia di quella compiutezza eterogenea dello zibaldone e comunque a suo modo eccelso “Weiland” che segna nel 2002 la fine di un’era e di un’estetica, bensì di un amalgama di episodi, acute osservazioni e sensazioni (anche esterne a quello che finora è stato il percorso di Markus Stock e Thomas Helm) fattesi qui una cosa sola e soltanto, ma dal risultato elevato all’ennesima potenza delle sue originarie parti: è chiaramente il mondo silvano, fin dalla copertina, dei dischi maggiormente Neo-Folk di metà carriera (“Where At Night The Wood Grouse Plays”, va quasi da sé), ma anche quello gotico e sinfonico, radente all’estremizzazioni Black sporcate di canti dal dolore bestiale dei primi due ed indimenticati, ma stilisticamente irreplicati ed abbandonati album, a tornare a dettare banco in mezzo alle squisite sofisticazioni Dark-Wave di “The Turn Of The Tides” con l’eleganza del ramo d’oro frazeriano, divenendo musicalmente l’inatteso crocevia confluente sia di quel che è stato che di tutto ciò che mai fu prima.

La band

Al suo centro, tre figure dalla bellezza tragica e folkloristica immerse nei chiaroscuri dell’aurora danzano sulle note intrecciate del calore di una chitarra acustica presto contrappuntata nel suo strimpellare vivace da scale di arpeggi e da un violino solitario per ricreare, in un perfetto medias-res, tutta la magia Neo-Folk del duo. Non suona infatti assolutamente un caso che “Three Flames Sapphire” che apre l’album sia anche l’ultimo brano scritto durante la sua gestazione, con il preciso intento di formularne postulato logico, di fissarne il nodo centrale da cui ogni diramazione dell’album possa partire senza permettere a nessuna di esse di perdersi lungo il percorso costellato di molliche di pane e fiati leggeri, melodie flautate che accompagneranno fino alle conclusive, splendide note della title-track che con le sue ultime ombre fitte lo inghiottisce una volta passato il metaforico tramonto muto, acustico e brillante di “Moonrise”, in un iniziale momento di occhi al cielo rischiarato d’alabastrino, e di “In The Morning Mist” poi.
Ma prima che ciò possa accadere è il risveglio singolare e magnifico dei fuochi fatui dal colore dello zaffiro, ballanti e tremoli come tre vergini eternamente lontane dallo sguardo umano, ad introdurre la parte di disco dedicata al chiarore del giorno, in cui le chitarre distorte gracchiano svuotate nei toni sotto al calore pieno di quelle acustiche combinandovi il sublime del retaggio poetico Black Metal e la sensibilità letteraria romantica come se la corteccia di betulla scricchiolasse sotto ai passi del viandante rispettoso; dove il violoncello e la viola si accompagnano col noire atmosferico à la Summoning di “Old Mornings Dawn” e cordofoni di terre distanti in “A Lucid Tower Beckons On The Hills Afar” per poi ricoprire invece nel mistero enigmatico di “The Archer” ed “Über Den Sternen” quel Doom Metal sinfonico come non lo era più da oltre vent’anni, ma rielaborato in luce del cambio di maree di un vino dorato e maturato in sensibilità ormai avvenuto nella vita artistica degli autori, per la prima volta giocante anche con cenni tastieristici gradevolmente rétro e vicini al mondo Dark Ambient di novantiana scuola Dungeon Music (“Keiser Av En Dimensjon Ukjent” di Mortiis richiamato non solo nell’incantevole artwork ad opera di Fursy Teyssier ma anche e soprattutto nell’utilizzo dei tasti bianchi e neri sul finire di “The Wild Swans”); come a voler rivendicare l’appartenenza concettuale della fantasia e dell’astrazione, del pensiero altro al trono di un certo tipo di musica per solitari.
È infatti il crepuscolo, momento di passaggio tra visibile e sensibile, dell’isolato par excellence, che accoglie l’ascoltatore sul finire di “The Oaken Throne” quello a cui segue l’apparizione di creature mitiche, non per forza immaginarie, dove sul già collaudato stratagemma aromatico di chitarre arpeggiate e violino sovrapposti e dialoganti si aggiunge l’arcana esoticità etnica del dulcimer (quel retaggio Dead Can Dance già in mostra nelle esplorazioni mature e ricolme di classe del precedente album targato 2014, ma ricontestualizzate in una cornice animata com’è innanzitutto dalla preziosa bucolicità Neo-Folk) prima del culmine ricco di rifrazioni Shoegaze e di una grazia smeraldo Alcest prestata al contesto silvano, traslucido ed autunnale degli Empyrium come avviene anche nella maggiore pesantezza iniziale della spettacolare “The Wild Swans” e dei suoi slanci multi-armonici di profondo dolore e desiderio chitarristico verso il drammatico; tremendamente malinconico, minaccioso e notturno nonostante sia nella pratica un’architettura neutra su cui si aggrappa l’approccio meticoloso ed elaborato, corale delle voci baritonali e tenorili, narranti, prima intonate a fiocco e poi sostituite dall’imbrunire nei toni ora più grattati e sporchi di Schwadorf: il decisivo pugno di ferro nel guanto di velluto, la manata del poetico e dell’autentico ad un mondo di plastica e di utile. E così germani reali aprono le loro ali dalle sfumature iridescenti sullo sfondo di una giornata al suo termine, e che nell’idillio pastorale diventa metafora del mondo che si richiude su sé stesso come una volpe acciambellata, oracolo pronto a dormire in un cielo in fiamme, e clarinetti e flauti traversi come flauti di pan vengono prestati all’inno ecologico lontano dalle umane pretese antropocentriche di una salvaguardia individuale che è a conti fatti tremendamente egocentrica ed egoista.

Non vi è tornaconto, non vi è traccia di paura per sé e per la propria specie in “Über Den Sternen”: non infatti con il timore cieco degli uomini di altre età ma con lo stupore ed il rispetto confacenti ad escursionisti moderni dall’animo antico, il tempio della natura a cui offrono i loro squisiti canti gli Empyrium è varcato tramite il dono dell’organizzazione delle proprie esperienze per poterne acquisire di nuove. La foresta metafisica, il bosco dell’anima ricco di occulto, d’inenarrato e d’aldilà, è il loro unico trono – ed il trono di rovine su cui respira vivente muschio di molti altri Flegias qualora ne siano consci o meno; e sebbene la riuscita di queste sontuose, novelle elegie ed orazioni abbia il carattere del vero ribelle figlio di Prometeo nonché delle accortezze che lo rendono l’album più completo di sempre del duo originario di Hendungen, fatto di una bellezza orgogliosamente lenta e di originalità rara, ricercata in un mondo violentato dall’efficienza, dall’operatività e dalla più sterile e stupida funzionalità asettica nell’immediato di contraddizione e bruttura, è altrettanto vero che l’ammonimento, il grande memento sia dei maestri tedeschi di devozione più grande della vita al pantheon di terra e cielo, che di colui il quale da Apollo è scaraventato nel Tartaro e da quest’ultimo condannato al celebre, mitologico urlo senza requie, sia pur sempre il medesimo invito a sognare, a credere in ciò che non si può vedere ma afferrare con adeguata sensibilità – ed un manuale di sopravvivenza alla tschandalica corruzione materiale del circostante al contempo: di fronte al meraviglioso, allo strano, al fiabesco, alla magia della scoperta, discite iustitiam moniti – et non temnere divos.

Matteo “Theo” Damiani

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